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Diario del virus: fame d’aria e tanta paura: cosa ricorderò della mia vittoria contro il Coviddi Pier Giorgio Scrimaglio 06 dic 2020 ![]() Ho preso il Covid, in una forma aggressiva: sono stato ricoverato per nove giorni in terapia sub-intensiva. Ora sono a casa, in convalescenza. Sono guarito, ma voglio fermare i ricordi di quello che mi è capitato. Non devono finire nel «cassetto della memoria». 24 ottobre. Come sempre, mi tengo in forma: tennis, camminate, bicicletta. Smart working e vita tranquilla. Vado a giocare a tennis. Ho una tossetta noiosa. Dopo dieci minuti mollo, con una scusa. 25 ottobre. A pranzo vado in bici, ho il fiato corto. 26 ottobre - 1 novembre. Arrivano spossatezza e febbriciattola. Lo sciroppo della tosse è inutile: ho attacchi fortissimi. La situazione peggiora rapidamente. Inizio a prendere antibiotici e cortisone, come da indicazione del medico di base. Fatico a mangiare e bere. Spesso non sono lucido. Il primo novembre, su suggerimento di un amico, vado in ospedale a Moncalieri. Mi fanno il tampone e le lastre ai polmoni: il referto è buono. Mi dimettono. 2-4 novembre. Sono positivo al Covid. Proseguo con antibiotici e cortisone. Il saturimetro indica 92. Sono sempre più stanco. Comincia la fame d’aria, di notte non respiro. Gli amici sono in ansia: vivo solo, in un posto isolato. 5 novembre. Il saturimetro indica 87. Non mi voglio far ricoverare, trovo giustificazioni. Gli amici mi fanno capire che chiamare il 118 è l’unica cosa da fare. Mi ricoverano al Pronto soccorso Covid. Uno stanzone enorme, tranquillo, coi letti a cerchio come i carri del West quando sono attaccati dagli indiani. Le lastre ai polmoni evidenziano una polmonite interstiziale bilaterale. Sono disidratato. Mi mettono la mascherina dell’ossigeno che dà un po’ di sollievo, anche psicologico. La notte in qualche modo passa. Un mio vicino di letto muore. Arrivano gli infermieri, gli mettono sopra un «coperchio» e lo portano via. 6 novembre. Mi trasferiscono al reparto Covid. Sono tutti con lo «scafandro». Sono diviso da un separé dal mio vicino. Non lo vedo, sento che chiama a casa. Non so che ore sono. Chiudo gli occhi. 7 novembre. Al mattino gli infermieri misurano pressione, febbre e saturazione. Che non va bene. Parleranno coi dottori per il casco. Proseguono le cure. Remdesivir, antibiotici e soluzione fisiologica in flebo. Cortisone in vena ed Eparina in pancia. E quattro litri di ossigeno. Mi portano il casco ventilatore: il rumore è assordante, sembra di essere in macchina a 200 all’ora coi finestrini aperti. Sento che mi fa bene. Lo terrò tutta la notte. 8 novembre. La mattina le infermiere dicono che va davvero meglio. Se il casco non avesse funzionato, mi avrebbero portato in terapia intensiva. Qui inizia la guarigione. 9 novembre. Attaccato a dei fili, respiro con le cannucce nel naso. Dormo controllando in continuazione di avere l’ossigeno. Non sto in piedi. 10 novembre. I valori si stanno normalizzando. Ho sempre l’ossigeno, ma con minore intensità. Senza mascherina non respiro ancora. La tosse però è molto regredita. I medici sono soddisfatti. 11 novembre. Mi spostano dal reparto infettivi sub-intensivi a un reparto di chirurgia convertito per il Covid. Via l’ossigeno, la prima reazione è di paura. 12 novembre. La dottoressa mi ausculta il torace. Dice che è il momento di fare il tampone. Il risultato arriva nel pomeriggio: sono guarito e asintomatico. Lascio il posto in ospedale a chi ne ha bisogno. 13 novembre. Mi danno il protocollo con le cure da seguire a casa, per la quarantena. C’è solo lo sciroppo per la tosse. |
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